LE ''RANOCCHIE,, DEL VICO E UN QUADRO CON LE RANOCCHIE di Stefano Bottari

come dice Epicuro, e come si può leggere in fondo al mito di La­ tona che partorisce presso alle fonti: mito, secondo il quale il Vico dice perciò che gli uomini diventaron ranocchie, cioè si rappre­ sentarono alla fantasia quasi, al pari dei batraci, sorti ex aqua li- moque ».3 Per gli storici della filosofia le concordanze tra Vico ed Epicuro assumono, come è noto, un particolare rilievo; e questo spiega com’è che il Gentile abbia svolto con tanto impegno quello che nel commento del Nicolini era un semplice accenno, seguito per giunta dalla seguente postilla: « Ma il passo è effettivamente assai oscuro, e non posso, per mancanza di elementi nelle altre opere del Vico, dare la mia interpretazione se non come congetturale ». Ma il Nicolini, come già s’è detto, ritornò su quel passo, e nel commentario con cui accompagnò la nuova edizione della se­ conda Scienza Nuova (quella in due volumi, degli « Scrittori d’Ita­ lia », Bari, 1928) si legge: « Non " presso l’acqua delle fontane pe­ renni ”, ma nell’isola Ortigia Latona partorì Diana e Apollo; e " al suo parto gli uomini diventarono ranocchie ” nel senso che, cac­ ciata da quell’isola da Giunone e giunta coi due neonati in Licia, presso un laghetto, ella, maledicendo alcuni villani che volevano impedirle di dissetarsi, li convertì in ranocchie».4 E richiama il racconto ovidiano del VI libro delle Metamorfosi (vv. 313-381), da cui probabilmente il Vico trasse lo spunto per i suoi complicati accenni, e da cui, senza alcun dubbio, deriva la scena fermata nella tavoletta che, per la rarità iconografica, ho voluto segnalare.6 Il racconto di Ovidio — poeta caro al Vico — prende le mosse dalla strage delle Niobidi. Il poeta fa parlare uno dei presenti a quella strage per aver poi modo di rievocare i fatti più lontani della vita di Latona. Latona, dunque, nell’isola di Deio — la sola che, isola ancora errante, ascoltò le sue preghiere — diede alla luce i due gemelli (Apollo e Diana), ma inseguita dall’ira di' Giunone dovette fug­ gire, e riparò in Licia, ove giunse stanca ed assetata in piena ca­ nicola. Accortasi d’un laghetto in fondo a una valle, vi scende per bere, ma i contadini del posto glielo impediscono. E la Dea sup­ plice ad essi: « Quid prohibetis aquis? usus communis aquarum est. Nec solem proprium natura, nec aera fecit, Nec tenues undas; ad publicà munera veni; Quae tamen ut detis, supplex pe*o. Non ego nostros Abluere hic artus lassataque membra parabam, Sed relevare sitim. Caret os umore loquentis Et fauces arent vixque est via vocis in illis. Haustus aquae mihi nectar erit vitamque fatebor Accepisse simul; vitam dederitis in unda. Hi quoque vos moveant, qui nostro bracchia tendunt ” Parua sinu ”. Et oasu tendebant bracchia nati ». Ma neanche a questa preghiera quei contadini cedono; anzi con i piedi e con le mani, e saltando dentro, intorbidano le acque 4 3 5

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